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Maggio è il mese del MIDI: la MIDI Manifactured Association (MMA) ha deciso di celebrare lo storico protocollo con una serie di webinar e una raccolta fondi per sostenere l’associazione. Per l’occasione, la redazione di SM Strumenti Musicali ha realizzato una serie di articoli dedicati: uno sguardo al passato, al presente e al futuro di questo linguaggio per capirne l’importanza in oltre 35 anni di onorata carriera. Partiamo con la mia riflessione legata alla nascita del MIDI.

 

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Sequential Circuits Prophet-600

 

Il MIDI – La genesi

Correva l’anno 1983, e la Sequential Circuits di Dave Smith - già nota per aver rilasciato cinque anni prima il leggendario Prophet V - immetteva sul mercato il Prophet 600: un sintetizzatore analogico in sottrattiva perfettamente dimenticabile, se non fosse per l’implementazione inedita delle porte MIDI. Una presenza, quella della doppietta pentapolare - o tripletta, nei casi appena più sofisticati - oggi perlopiù scontata, fino magari ad essere percepita quale retaggio polveroso di un passato inutilmente complicato, retaggio che le magnifiche sorti e progressive della strumentazione musicale non si sarebbero ancora scrollate di dosso per chissà quale motivo. E invece…

 

 

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Dave Smith presenta al NAMM nel 1983 il Prophet-600

 

E invece la realtà - ma tu guarda! - è un po’ più sfaccettata, soprattutto se si compie lo sforzo intellettuale di non proiettare nel passato il presente degli strumenti musicali: vale a dire se, nello specifico, si cerca di ricostruire criticamente il contesto che ha portato a quei primi due MIDI IN e MIDI OUT, chiedendosi magari quanto essi, lungi dall’essere soltanto la conseguenza di alcuni fenomeni a monte, non si siano nel bene e nel male rivelati anche la causa di ulteriori fenomeni a valle. Perché una cosa è certa: il protocollo MIDI - acronimo per Music Instrument Digital Interface - tanto più a posteriori difficilmente può essere visto come tema meramente tecnico.

 

 

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Un periodo di forte fermento

È semmai tema anche - e soprattutto? - culturale. Come culturale è la spinta che, a partire da precondizioni materiali adeguate, sullo scorcio degli anni Settanta ne porta al concepimento prima e alla realizzazione poi. Il mercato degli strumenti musicali è in quegli anni in fermento: quello dei sintetizzatori, in particolare, sforna proprio in questo frangente alcuni di quei mostri sacri che andranno incontro - prima, ma più spesso poi - alla venerazione incondizionata del grande pubblico. Macchine ambiziose tanto sul piano prestazionale quanto su quello commerciale: macchine che tuttavia - come i produttori si rendono perfettamente conto - vedono profilarsi all’orizzonte un limite contro il quale sarebbe opportuno non schiantarsi.

Questione di dialogo

È il limite del dialogo. Dialogo che non c’è, se non nelle forme limitate e limitanti del puro dominio analogico. Il mondo dei sintetizzatori, via via che si popola di esemplari bensuonanti, potenti, proiettati nel futuro, scopre che per raggiungerlo compiutamente, il futuro, ha bisogno di qualcosa di più che non i muscoli di questa o quest’altra macchina: ha bisogno di superare il problema della monotimbricità e quello della sincronizzazione, tanto per cominciare, e ha bisogno di farlo senza spendere una fortuna, nel dominio discreto della tecnologia digitale. Una koiné, ecco quello che serve: un linguaggio condiviso, un protocollo che metta in comunicazione fra loro strumenti elettronici i più diversi fra loro, e che in prospettiva proietti l’utente verso nuovi orizzonti di creatività.

 

 

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1983: la cartuccia Sequential Circuits per il Commodore 64. Sequencer a sei tracce e interfaccia MIDI

 

Universal Synthesizer Interface

Ovviamente la strada è (relativamente) lunga e (relativamente) impervia: quello che i vari produttori devono intraprendere è un salto tecnologico non indifferente, ma soprattutto è un azzardo psicologico tanto più gravoso quanto più le singole aziende, nel recente passato, hanno investito per mettere a punto un proprio standard che metta in comunicazione fra loro almeno i propri prodotti. Si capisce allora come le tappe che portano allo standard MIDI 1.0 possano rivelarsi accidentate: formalizzato agli albori degli Ottanta, il protocollo Universal Synthesizer Interface viene preso in esame dalla Audio Engineer Society nel 1981, assurgendo a punto di partenza per un confronto fra produttori di strumenti musicali elettronici che solo dopo due anni - e una pletora di integrazioni e modifiche - consentirà di fissare un punto.

 

 

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Dai manuali del Sipario di Lab4Music: un esempio di network MIDI

 

Il Network MIDI

Un punto tanto in termini di hardware che in termini di software. L’applicazione del protocollo MIDI ad uno strumento elettronico richiede l’implementazione di un’interfaccia hardware che veicoli un set di messaggi capace di istruire quello stesso istrumento: un set di messaggi - questo a conti fatti il nocciolo della questione - condiviso dai produttori che sposano l’ambizione del MIDI, e che così facendo gettano i presupposti per un network materialmente e concettualmente inedito. I risvolti? Enormi: il MIDI spalanca praterie vergini in fatto di multitimbricità, controllo, sincronia, backup. Di più: mette l’utente nelle condizioni di modellare l’interazione fra i propri strumenti sulla base delle proprie esigenze, siano esse attuali o piuttosto future.

 

 

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Un esempio di setup MIDI esteso: Gianluca Tagliavini (ph. Enrico Celotto)

 

Il setup esteso

Perché il quid del MIDI, in una prospettiva storica, sta probabilmente qui: nell’aver trasceso l’ambito tecnico finendo per impattare - per così dire a ritroso - quello dell’estetica musicale. Senza le soluzioni rese possibili dall’imporsi del protocollo la produzione musicale come la conosciamo da oltre trent’anni semplicemente non esisterebbe: non esisterebbe il layering - se non immediato, certo ergonomico - fra timbri; non esisterebbe il sequencing evoluto; non esisterebbe la possibilità di guardare al proprio setup come a un puzzle perennemente in fieri, dove ospitare workstation, sintetizzatori, unità effetti, drum machine, computer, ecc. ecc., con la ragionevole certezza di mettere tutto in proficuo, reciproco dialogo. Non esisterebbero, in altre parole, interi settori di mercato che oggi, per un errore prospettico, possono sembrare talmente consolidati da approssimarsi all’obsolescenza.

 

 

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Roland SC-55: uscito nel 1991, fu il primo modulo a supportare lo Standard General MIDI per riprodurre dei MIDIFile

 

Il MIDIFile

Si pensi ai MIDIFile: lo sbocco naturale dei desiderata di quanti hanno intuito l’opportunità del protocollo, e al contempo - sul lungo periodo - il volano di un certo intrattenimento musicale che ha segnato un’intera generazione di programmatori. Dall’architettura di un MIDIFile alla professionalità consumata di un basista - che dalle prime esperienze sui primi, spartani sequencer a 16 tracce arriva a padroneggiare le raffinatezze di cui è capace oggi una DAW - il passo non è necessariamente breve: non è, però, nemmeno rispondente a un accidente della storia della strumentazione musicale. Al contrario: è l’esito di una stagione da recuperare intellettualmente, per mettere maggiormente a fuoco il presente e, se possibile, progettare il futuro.

 

 

Conclusioni

Alla luce di ciò, si provi a guardare con occhio diverso a quelle porte MIDI che ancora fanno la loro presenza fra le connessioni di tanto hardware: dietro di esse c’è una storia non banale, dagli esiti non scontati, che testimonia di un’epoca in cui i produttori di strumenti musicali elettronici hanno gettato le basi per esplorare nuovi approcci alla strumentazione, e in definitiva nuovi orizzonti sonori: e oggi cosa rimane di questa prospettiva, e cosa invece si è perso per strada?

 

 

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