Quello che ci frega è la narrazione: il ricondurre l’uso dei nostri sintetizzatori a dei preconcetti - a delle chiacchiere da bar, più prosaicamente - che potranno pure essere rassicuranti sul piano psicologico, ma che su quello operativo sono colpevolmente limitanti.
La “macchina per fare i pad” (e nient’altro?), quella “per fare i bassi” (e nient’altro?), ecc. ecc.: tutti noi condividiamo delle idee forti - e nomi ricorrenti, e budget risicati - che però spesso e volentieri non verifichiamo nel merito, con il risultato che un pezzo di divertimento ce lo perdiamo per strada.
Bass Station II, la zappa sui piedi
Va detto che il problema non è farina del solo sacco degli utenti, ma anche - e soprattutto? - di quello dei produttori: perché la narrazione vende più dell’impiego critico, e quindi ha gioco facile a occupare il centro della scena. Alla bisogna si insinua nel nome stesso di un sintetizzatore, pretendendo di trasmetterne immediatamente la vocazione: un caso di scuola personalmente vissuto è la Bass Station II di Novation, che trovate - a voler essere perfidi - alla voce “zappa sui piedi”. Intendiamoci: io sono un felice, felicissimo possessore della Bass Station II. Che presi qualche anno fa quando, nell’architettare il setup dell’Invisibile Unicorno Rosa, mi resi conto che un sintetizzatore analogico, per occuparsi delle episodiche parti di basso sintetico, avrebbe fatto comodo.
Budget e spazi alla mano, cosa sarebbe potuto esserci di più azzeccato di una macchina agile e abbordabile che, fin dal nome, prometteva bassi a perdita d’occhio? Una macchina con un certo pedigree, peraltro. Perché la narrazione di casa Novation veniva impreziosita dalla suggestione del retaggio: la Bass Station II non poteva che riprendere il discorso che era stato della Bass Station originaria, discorso sì molto più recente e molto meno blasonato di quello di altri sintetizzatori analogici monofonici, ma comunque dotato di personalità e di luce propria, tanto più nell’economia del parco macchine Novation.
Un’architettura completa
Due oscillatori con quattro forme d’onda e quattro piedaggi, un suboscillatore, un generatore di rumore. Un filtro multimodo risonante passabasso - passabanda - passalto, a due e a quattro poli. Due LFO e due inviluppi. Più tutta una serie di chicche: punti di saturazione e distorsione del segnale collocati lungo la catena di sintesi; sync fra gli oscillatori; filtro alternativo acid; ecc. ecc. ecc.. Mi pare ovvio che la Bass Station II possa fare i bassi: ma mi pare altrettanto ovvio che possa fare molto altro. Lead, effetti, e in generale tutti quei timbri che ci si aspetta da un sintetizzatore monofonico analogico completo nell’architettura e generalista nella vocazione: quindi perché sposare a occhi chiusi la narrazione di una macchina “per fare i bassi”? Perché non affrancarsi da quella patina di marketing che, invece che valorizzare il prodotto, all’atto pratico finisce per mortificarlo trasmettendone un’idea del potenziale riduttiva ? Vero: Novation correggeva - e corregge - il tiro mettendo nero su bianco che si stava - e si sta - parlando di much more than bass. Ma è una sordina un po’ debole rispetto alla grancassa del nome: a confronto sono più potenti gli imprevisti che possono capitare a un utente relativamente pragmatico e certo pigro come me, alle prese con la quadratura del cerchio che il palco dell’Invisibile Unicorno Rosa tipicamente richiede.
La pigrizia dell’Unicorno
“Era una notte buia e tempestosa”. Anzi no: era il giugno del 2017 e con Gabriele e Fabio si stava lavorando all’arrangiamento di “Da grande voglio fare il palombaro ciclista”, da portare qualche giorno più tardi sul palco perugino del Balù. Avevamo bisogno di due parti di tastiera: una polifonica per pad, brass, ecc. ecc.; una monofonica per qualche solo dal timbro facilmente manipolabile in tempo reale. Metri quadri a disposizione: pochissimi. Che fare? Rischiare la doppietta Novation: Ultranova in veste di sintetizzatore polifonico (e en passant di interfaccia audio) e Bass Station II in veste di sintetizzatore monofonico. In programma con la cucciola nemmeno un basso sintetico, ma lead da stravolgere tempo per tempo ricorrendo alla generosa interfaccia macchina. Perché l’architettura c’era, l’ergonomia pure: messa in conto l’estensione risicata - niente fughe a colpi di ottava, evidentemente - si trattava di soprassedere sul boomerang rappresentato da quel nome. E pensare a divertirsi.
A 2:33 potete appunto ascoltare un lead della Bass Station II. Nulla di esoterico, ché di tutte le cartucce a disposizione se ne sono sparate molto poche; ma al contempo nulla di lasciato al caso, a dimostrazione che una macchina tecnicamente bensuonante sa ritagliarsi un proprio spazio già con un semplice LFO da tirare per i capelli. Si tratta di entrare nel merito della macchina: lucidamente, senza partigianerie. Senza narrazione. Manco a dirlo, l’opportunità di mantenersi lucidi vale per la Bass Station II come per una pletora di altri sintetizzatori. Non si tratta di pedanteria intellettuale - ché alla fine sì: ognuno compra quello che vuole e si racconta la storia che preferisce, senza che io perda il sonno - ma di ricerca di soluzioni sonore che sono lì, a portata delle nostre mani, e che una volta colte potrebbero rivelarsi sorprendenti. O utili. O anche solo divertenti: vi pare poco?
Il sintetizzatore: esempi senza fine
Due esempi, probabilmente banali, tratti dal mio parco macchine. Il motore KB3 di Kurzweil implementato nella mia PC3X: un modesto emulatore di organo elettromeccanico, e al contempo un pozzo senza fondo per pad costruiti con la logica degli armonici. Basta affrancarsi dalla narrazione della filologia sempre e comunque, e chiedersi con un pizzico di apparente incoscienza: e se costruissi un timbro di organo con i piedaggi del caso, e poi sostituissi il campione di Hammond con uno di Solina? E ancora: le wavesequences della mia Wavestation A/D, croce e delizia di ogni programmatore che da una parte ama la ritmicità che possono conferire a una parte, dall’altra vuole evitare come la peste di scadere nel “già sentito, chicco”. Con la giusta programmazione - vale a dire conoscendo non solo il funzionamento delle wavesesequences, ma anche il serbatoio di campioni datati a cui queste hanno accesso - ci si può ritrovare per le mani un vero e proprio pattern ritmico che funziona non nonostante, ma proprio perché è anomalo nei colori e nel disegno. Gli esempi potrebbero susseguirsi. Ma il concetto rimarrebbe il medesimo: la narrazione è gratificante nell’immediato, ma sul lungo periodo bisogna puntare all’impiego critico. Che è fatto di cadute, di ginocchi sbucciati, di timbri inconcludenti e di soluzioni farraginose. Ma anche occasionalmente di spese contenute, di risultati sorprendenti e, al vostro buon cuore, di tanto divertimento. Una volta di più: vi pare poco?