Raccontare la carriera di Gianni Giudici in poche righe è arduo: talentuoso compositore, pianista e organista jazz e blues, a 17 anni diventa il più giovane dimostratore e concertista di un marchio come Hammond. In seguito, ben 35 anni di militanza in Generalmusic, partendo come musicista fino ad assumere in azienda le cariche di Vice Presidente, Brand Manager e Direttore Musicale. La sua forte passione per le tecniche di sintesi sonora l’ha spinto a far parte di gruppi di ricerca dedicati, in primis quello allestito da Generalmusic presso il Centro di Sonologia Computazionale dell'Università di Padova. In seguito ha fatto parte di altri team internazionali presso le Università di Verona e Milano. Gianni è stato tra i protagonisti del periodo d’oro nell’industria degli strumenti musicali elettronici italiani, quel comparto nelle Marche che per anni è stato leader del mercato mondiale.
L’ho incontrato negli uffici della Fatar a Recanati, dove oggi è Brand Manager di Studiologic, per farmi raccontare i suoi “primi 40 anni”.
Gianni Giudici: l’Hammond
Riccardo Gerbi: partiamo dagli esordi in gioventù?
Gianni Giudici: la prima azienda con cui ho collaborato è stata la Hammond Italy, di cui sono stato dimostratore dal 1970 al 1974. Un’esperienza dalle forti emozioni, perché essere l’organista di Hammond dava un certo prestigio e durante quel periodo ho conosciuto e stretto amicizia con alcuni virtuosi dello strumento che per me erano dei miti.
RG: all’epoca c’era una particolare attenzione nella formazione del dimostratore?
GG: in Hammond erano particolarmente attenti a questo aspetto, coinvolgendo spesso i loro migliori musicisti: artisti del calibro di Shay Torrent, Axel Alexander, Bryan Rodwell, Jerry Allen e persino Champ Champagne, con cui passai giorni intensi a Toronto. Il 1973 decretò la fine dell’epoca degli elettromeccanici e in Hammond realizzarono il primo vero grande modello console elettronico: il Concorde. Con questo modello la Hammond voleva espandere gli orizzonti sonori del musicista e presentare l’organo come un’orchestra. La sfida per il dimostratore era far sentire più suoni nel minor tempo possibile, secondo la letteratura adatta a ciascun timbro. Vinsi questa sfida, controvoglia, ma l’esperienza acquisita mi ha consentito di mantenere un approccio orchestrale anche con i sintetizzatori e le workstation sviluppate in seguito. Purtroppo, sono sempre meno i dimostratori odierni che adottano questo tipo di impostazione. L’esperienza in Hammond mi portò anche la prima vera delusione, perché il suono del Concorde non mi piaceva affatto: fu quello il momento in cui stilai la mia prima e analisi tecnica dello strumento con i tecnici americani e non fui tenero nei giudizi, perciò fu anche l’ultima.
L'epoca Generalmusic
RG: ti dividevi tra l’attività professionale e il palco?
GG: si, il mio primo trio era con Bruno de Filippi e Tullio De Piscopo, militavo poi nella Cooper Terry Blues Band e suonavo nella band di Johnny Sax succedendo ad un grande amico come Dario Baldan Bembo. Nel frattempo, Piero Masini (fonico di Mina e fondatore della LEM, ndr) fece il mio nome a Matteo Galanti, il quale mi propose di entrare a far parte del team di tecnici della Generalmusic. Avevo venti anni ed ero a un bivio: seguire la mia band in un tour con Mia Martini e restare dimostratore italiano per Hammond, oppure scegliere la carriera di consulente tecnico/musicale. Scelsi la seconda strada e così – da milanese purosangue – feci armi e bagagli trasferendomi prima in Romagna e successivamente a Pesaro.
RG: la galassia Generalmusic era popolata di stelle…
GG: il gruppo Galanti all’epoca comprendeva diversi brand oltre a GEM e Viscount. Io fui impegnato non solo nello sviluppo delle tastiere, ma anche in ambito audio con LEM: ricordo sempre con affetto due linee di amplificatori per basso e chitarra che seguii personalmente. Nel 1976 fu acquisita la Schulze-Pollmann, in seguito nacque anche Bachmann e per entrambe seguii lo sviluppo di diversi pianoforti acustici e ibridi. Nel 1980 nacque la Ahlborn, un brand dedicato agli organi liturgici, tutt’ora attivo.
ELKA
RG: e l'acquisizione della ELKA?
GG: in primis ci fu la scissione con Viscount, poi la GEM acquisì la ELKA e il suo ampio stabilimento in zona Squartabue a Recanati. Si spostò la produzione principale in quella sede, allestendo un distaccamento dei laboratori di Ricerca e Sviluppo. I tecnici e musicisti di grande valore del team ELKA furono affiancati da quelli ex Crumar, che avevano lavorato al famoso sintetizzatore Bit One; io arrivai nel pieno della produzione dello storico Synthex.
RG: chi ha vissuto l’esperienza in Generalmusic ricorda sempre il forte impegno nella formazione del personale: è stato così anche per te?
GG: in Generalmusic il percorso formativo era importante. L’azienda aveva allestito un Laboratorio avanzato a Chicago, dove passai anni di grandi ricerche. In America mi ritrovai addirittura a San Josè a lavorare con il team di progettazione di Sequential Circuits, che realizzò poi il Prophet-5. Con questo team studiai un sintetizzatore analogico da inserire all’interno di un organo al top di gamma del catalogo GEM. Un’esperienza incredibile.
L’Italia leader del settore
RG: quando il comparto Italiano ha cambiato marcia?
GG: è cambiato tanto nel momento in cui i Giapponesi hanno cominciato a fare sul serio. Sulle prime, quando vedevi in fiera i tecnici giapponesi intenti a studiare i tuoi strumenti, quasi ti mettevi a ridere. Si capii solo dopo che stavano facendo quello che oggi fanno i Cinesi: partendo da timide repliche di prodotti esistenti, in pochi anni avevano messo in produzione strumenti completamente originali e soprattutto affidabili. Da quel momento furono dolori. Negli anni Ottanta fummo costretti a competere in termini di innovazione, il che significò la sopravvivenza solo per chi era in grado di investire grosse somme in termini di ricerca e sviluppo. Fu in questo frangente che venne decretata la fine di molte aziende. Matteo Galanti era un visionario, e questo lo spinse a investire sull’innovazione ma anche – e soprattutto - sulla differenziazione: elementi che ci portarono ad armi pari con i Giapponesi per un buon ventennio.
RG: ne ho parlato con Marcello Colò: in Generalmusic siete stati degli innovatori…
GG: pensa a quanti contenuti tecnologici abbiamo proposto per la prima volta nelle workstation arranger GEM del periodo. L’idea dell’uscita video e il supporto del Karaoke e il Music Score nella serie WX mi venne osservando i sistemi Pioneer dedicati dell’epoca. Pensai: perché non possono averli anche le tastiere? In termini di produttività, nei primi anni Novanta dalle linee dello stabilimento di Squartabue uscivano un centinaio di WS2 al giorno. Nel 2000 la GEM produsse i primi strumenti digitali dotati di generatori sonori già basati sulla modellazione fisica e ben 320 note di polifonia. Furono anni di grande progresso tecnologico, ma ci tengo a sottolineare che molte idee (se non tutte) giunsero da menti italiane.
L’individualismo
RG: torniamo un momento agli anni ottanta: ma le aziende in crisi non si potevano salvare, magari costituendo delle Cooperative?
GG: in realtà pensarono di associarsi, per fare una ricerca comune - per esempio attraverso il consorzio ISELQUI - ma l’individualismo che vige obbligatoriamente in questo settore ha impedito una reale collaborazione. In ogni caso, dall’esperienza dell’ISELQUI nacquero anche progetti interessanti: penso per esempio a quello che portò a realizzare in LEM il campionatore Example, ma poco altro purtroppo.
RG: così vicini e così distanti?
GG: tu calcola che – parlo della mia esperienza in GEM - tra Recanati e Mondaino ci sono circa 100 chilometri di distanza, ma all’epoca in ambito tecnologico correva un abisso. L’acquisizione di ELKA da parte di GEM non fu mai vista di buon occhio, e se tra i team di musicisti l’affiatamento era quasi totale, le discussioni tra i tecnici dei due brand erano spesso all’ordine del giorno. Ricordo che litigai mesi in GEM solo per introdurre nella WS2 la Trackball e la sezione di pulsanti sulla parte sinistra della tastiera, che tanto piacque all’utenza. Certi attriti competitivi nei team, se non gestiti, possono vanificare gli investimenti, perché ti ritrovi – per esempio – con due progetti sostanzialmente simili, ma basati su piattaforme diverse: cosa scegliere? Questa mancanza di fronte comune sotto l’aspetto tecnico, specie considerando gli investimenti necessari, è stata una delle prime cause del successivo declino del comparto marchigiano.
RG: e le altre cause?
GG: alcune scelte imprenditoriali. Per esempio, Generalmusic rifiutò all’epoca delle partnership molto importanti con dei notissimi brand stranieri, che ovviamente andarono a investire altrove, oppure portarono via progettisti e musicisti già formati, a suon di compensi elevati e programmi stimolanti.
Una rinascita
RG: secondo te oggi è possibile?
GG: ti dirò: la storicità del comparto sappiamo che è ancora fonte di attrazione per possibili investitori esteri; il problema potrebbe essere la scarsità attuale di tecnici specializzati e dotati di passione. All’epoca c’erano ingegneri che avevano competenze eccezionali in qualsiasi campo, non solo in quello musicale. In Farfisa c’erano centri di ricerca che collaboravano con realtà come l’IRCAM di Parigi, dove andai io stesso più volte. Oggi tutto questo non c’è quasi più e le poche e valide figure professionali dell’epoca sono stabilmente impegnate in realtà quali Korg Italy, Ketron, Proel, Dexibell, Viscount o Fatar/Studiologic. Avere passione è vitale nel nostro settore, viste le opportunità minori rispetto ad altri e la estrema peculiarità dei progetti.
RG: Manca un ricambio generazionale?
GG: c’è stato un periodo di stallo nelle Università e solo recentemente a Milano o ad Ancona hanno riaperto dei corsi triennali di ingegneria applicata alla Musica. Benché focalizzati anche su percorsi progettuali non tutti pertinenti, questi corsi possono essere la chiave di volta per introdurre menti tecnico-musicali fresche. L'importante è che l’azienda che li assume sia disposta a investire per farli crescere, così come è accaduto con la mia generazione.
L’era Fatar/Studiologic
RG: dopo Generalmusic, quando Gianni Giudici approda in Fatar/Studiologic?
GG: sono arrivato in Fatar nel 2010: conoscevo bene l’azienda, perché ho collaborato per anni con il compianto Lino Ragni (il fondatore, ndr) sulle tastiere per GEM e anche su altre ricerche innovative. Ho cominciato seguendo la messa a punto finale di due prodotti Studiologic come Numa Piano e Organ, i primi strumenti del marchio italiano dotati di una generazione sonora integrata. In seguito, mi sono occupato di altri modelli quali i pianoforti Numa Stage e Concert, il Numa Organ 2, il sintetizzatore Sledge in collaborazione con Waldorf, i rinnovati MIDI Controller della serie SL, tutta la serie Compact e infine il nuovo Mixface.
RG: L’ambiente in Fatar/Studiologic?
GG: mi piace per diversi motivi: il primo è che l’attuale presidente, Marco Ragni, è anche un musicista e quando studiamo un progetto la visione del risultato finale è condiviso. Il secondo motivo è che il team di Ricerca e Sviluppo è composto ancora da poche persone, tra cui alcuni giovani, ma tutte estremamente valide. A volte si discute sullo studio del prodotto, ma è meglio così, perché dove non si litiga c’è politica e questo non mi è mai piaciuto. Sono entusiasta di questa esperienza e vedo ampi margini di espansione per Studiologic.
Gianni Giudici e i Giovani
RG: l’approccio con i giovani per te è una costante…
GG: perché sono loro il futuro! Senza di loro non vai da nessuna parte e un esempio è proprio quanto accade oggi in Fatar/Studiologic. L’interazione con un management giovane, capace oggi di investire anche in partnership come quella con Audio Modeling per il software Camelot, ti consente di guardare al futuro con una buona dose di tranquillità. E poi io non ho più vent’anni, neppure per gamba.
Lo scenario futuro
RG: Fatar è fornitrice di tastiere per marchi leader di tutto il mondo e produttrice di strumenti per molti top- brand: da questa postazione privilegiata come vedi la situazione attuale?
GG: in quanto ottimista, specialmente in settori come i pianoforti digitali o i sintetizzatori, ritengo ci siano ancora molti margini di miglioramento e evoluzioni forse epocali. Nei pianoforti digitali noto l’inizio di una certa uniformità nell'interfaccia, ma perché non uniformare finalmente anche le terminologie adottate per ciascun parametro? Quando descrivi la struttura di un sintetizzatore, fin dai tempi di Arp o Moog, ogni parametro ha spesso una precisa denominazione: mi chiedo perché non ci sia uno standard anche per i pianoforti digitali! Anni fa un mio tentativo in questo senso, proposto proprio in ambito ISELQUI, si rivelò un buco nell'acqua per l’individualismo a cui accennavo in precedenza. Il problema, a ben guardare, si può estendere anche alle tastiere Arranger, zeppe di funzioni tutte uguali con nomi tutti diversi. Fortunatamente le cose stanno cambiando: per esempio, in Fatar con i tecnici di molte aziende l’affiatamento è totale, e se grazie a queste collaborazioni miglioriamo la qualità di una meccanica Fatar, ne beneficiano anche altri clienti.
Originalità
RG: ma ci sono ancora margini per essere originali?
GG: secondo me si. In Studiologic ripeto come un mantra ai miei colleghi questa frase: “Non puoi inventare niente se non conosci esattamente tutto ciò che esiste”. Ancora oggi, quando esce un nuovo prodotto, mi scarico dalla rete i manuali e cerco tutte le informazioni utili, per capire i traguardi raggiunti dalla concorrenza. La conoscenza non deve spingerti a imitarli, bensì a studiare soluzioni nuove partendo magari da una base esistente o da errori altrui. Isolarsi nel laboratorio senza guardare fuori non aiuta e questo vale anche per il musicista che si chiude tra le mura domestiche a suonare da solo, magari sempre le stesse cose. La condivisione delle informazioni espande le conoscenze e può essere stimolo per nuove idee.
RG: grazie Gianni per questa bella chiacchierata!
GG: se me lo permetti, concludo citando Seneca, perché di recente ho riletto una sua frase sull’ala di un vecchio caccia F-104, una frase che per me esprime un concetto fondamentale: “Nullum magnum ingenium sine mixtura dementiae fuit”.
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