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raffaele mirabellaRaffaele Mirabella è un personaggio che vanta molteplici esperienze nel settore: partito come dimostratore di pianoforti e tastiere, in seguito si è occupato di comunicazione, progettazione e sviluppo di nuovi strumenti. 30 anni di carriera fatti di tanti successi e anche qualche delusione, ma affrontati sempre con la determinazione e la passione di un musicista che guarda sempre avanti. Da anni con Raffaele ci incontriamo sempre in fiere ed eventi, in cui ritagliarsi una bella porzione di tempo non è semplice: abbiamo deciso di farlo nel suo studio, in un tiepido pomeriggio romagnolo.

Raffaele Mirabella: gli esordi

Riccardo Gerbi: da dove iniziamo?

 

Raffaele Mirabella: si parte nel 1986, quando inizio a fare il dimostratore per Yamaha, grazie all’interessamento di un grande organista e amico come Giorgio Marotti. Il primo evento che ho fatto è stato il SIM a Milano, all’epoca la massima espressione tra le fiere italiane del settore.

 

RG: cosa dimostravi per Yamaha?

 

RM: ho iniziato con i pianoforti digitali Clavinova, più precisamente con il CVP5, uno degli ultimi modelli che ancora montava il chip in FM. In seguito, ho tenuto a battesimo il CLP-50, il primo pianoforte digitale basato sulla sintesi proprietaria AWM a campionamento. Per la presentazione di questo strumento Yamaha fece le cose in grande, perché in un albergo milanese fu organizzata una conferenza stampa con “blind test” per gli addetti ai lavori.

 

RG: in pratica, sei stato l’apripista dell’era Clavinova?

 

RM: si, e va aggiunto che la strategia di marketing studiata da Yamaha con quella denominazione adottata per i pianoforti digitali casalinghi fu geniale. Il giro dimostrativo prevedeva una serie di negozi che vendevano pianoforti acustici di un certo pregio: immagina convincere un negoziante a dover vendere uno strumento così innovativo. Sono passati 30 anni, ma se oggi entri in un negozio ed esclami: “ha un Clavinova?”, il negoziante parla la tua stessa lingua.

 

raffaele mirabella

Il pianoforte digitale Yamaha CLP-50

 

Lo Yamaha DX7IIFD

 

RG: e dopo i Clavinova?

 

RM: Yamaha mi affiancò all’amico Antonino Valenti, all’epoca Sales Manager dell’area Synth: arrivai quando ancora era in auge il glorioso DX7, per presentare il più recente Mark II. Seguii in particolare il modello dotato della scheda “E!” studiata dall’americana Grey Matter Response.

 

RG: la scheda “E!” era un vero e proprio lusso…

 

RM: il progettista era un geniaccio, perché riscrisse il sistema operativo originale per introdurre dei banchi preset più estesi, nonché un sequencer e la possibilità di creare Performance basate su quattro timbriche. Sarebbe bello riproporre nuovamente alcune funzioni della scheda “E!” nei synth odierni, una tra tutte: lo Split Point flottante.

 

raffaele mirabella

Il campionatore Yamaha TX16W

 

Sound Designer con lo Yamaha TX16W

 

RG: …hai seguito anche il campionatore TX16W, sbaglio?

 

RM: non sbagli, e dovetti lavorare giorno e notte sul primo esemplare giunto in Italia di TX16W, per creare una libreria di suoni all’altezza dei concorrenti dell’epoca. Il TX16W ancora oggi è straordinario sotto il profilo delle prestazioni: puoi allestire fino a 128 zone per il sample, e in ciascuna hai a disposizione tutti i parametri di sintesi. Il problema del TX16W è stata l’interfaccia, troppo complessa per l’utente. Questo esempio è sintomatico riguardo all’atteggiamento mentale di alcuni progettisti che ancora oggi guardano alla prestazione in termini assoluti come traguardo finale, mentre invece dovrebbero chiedersi cosa vuole il musicista. Un’altra tappa importante vissuta in Yamaha dal sottoscritto risale al 1988, quando uscì la workstation in FM V50: erano gli albori di questa categoria di strumenti, e in Yamaha si decise di realizzare un video manuale di uso dedicato.

 

raffaele mirabella

Raffaele Mirabella ai tempi dell'X-Club, per una demo con il synth DX7 e il mixer DMP7

 

Lo Yamaha X-Club

 

RG: fu qui che nacque il team?

 

RM: quelli furono i primi vagiti del progetto. Iniziammo con un team di poche e motivate persone, con mezzi tecnici per le riprese che oggi paiono preistorici. L’esperienza ci è servita per ripeterla con la successiva SY77: la macchina realizzata da Yamaha per rispondere al boom di vendite di workstation concorrenti come il Korg M1.

 

RG: cosa rese vincente l’X-Club?

 

RM: L’intuizione di Antonino Valenti fu che - formando addetti ai lavori e pubblico - riuscivi a vendere il tuo prodotto in maniera efficace, a differenza di modelli concorrenti magari più validi per caratteristiche, ma carenti sotto il profilo dell’informazione. La strategia era allestire un demo tour in giro per i negozi italiani, con service audio/luci al seguito: una sessione era dedicata ai responsabili del negozio, e alla sera lo show per pubblico e clientela. L’X-Club inoltre pubblicava una rivista (X-News – ndr) in cui i membri più esperti redigevano articoli monografici sui synth Yamaha, e successivamente anche sui primi mixer digitali del brand giapponese. Durante un’edizione del SIM con Tele Montecarlo si allestì una regia video, in cui l’audio era curato dai primi mixer DMP7: era il 1989 e con noi c’era uno Yamaha Artist del calibro di Jeff Lorber. Vorrei ricordare anche un altro collaboratore dell’X-Club all’epoca come Attila Baldini, che si occupava del marketing.

 

RG: cosa ti manca oggi di quel periodo?

 

RM: Da un lato umano, l’X-Club è stato l’esempio che l’ambiente musicale è sempre un fatto sociale: oggi manca l’interazione tra i vari organismi dell’ecosistema musica. Il musicista si è progressivamente chiuso nel proprio home studio diventando un Producer, che pubblica direttamente il proprio materiale sul web. Di quell’epoca manca l’interazione con altri musicisti, magari più bravi di te, che ti danno la pacca sulla spalla per la buona idea, oppure porgono quella critica che ti sprona a migliorare. Dei tempi dell’X-Club rimpiango questo: il progetto di un video manuale era sempre il mix di tante idee fuse insieme.

 

raffaele mirabella

In alto, il mixer digitale Yamaha DMP7

 

L’esperienza Generalmusic

 

RG: e dopo Yamaha?

 

RM: nel 1995 arrivò la classica proposta a cui non puoi rinunciare: diventare dimostratore di un brand come Generalmusic. Accettai e mi trasferii con la famiglia sulla riviera romagnola dove vivo tutt’ora.

 

RG: di cosa ti sei occupato in principio?

 

RM: era appena stata presentata la workstation arranger WK4, mi consegnarono un esemplare e dopo un paio di settimane tornai in sede non solo con le mie demo, ma con una scheda tecnica piena di segnalazioni di bug. Questa mia pignoleria colpì positivamente il management.

 

RG: sei stato coinvolto in qualche progetto?

 

RM: inizialmente no, solo in seguito sono stato coinvolto nel team di progettazione dei pianoforti digitali casalinghi, perché la serie Promega – per esempio – era ancora seguita dal team di ricerca e sviluppo dei sintetizzatori. Come già spiegato nella sua intervista da Marcello Colò, anch’io svolgevo delle ricerche durante i miei tour dimostrativi, raccogliendo feedback dall’utenza di ciascun paese riguardo alle timbriche o l’intensità degli effetti associati.

 

RG: addirittura gli effetti?

 

RM: in Francia ricordo che all’epoca avevano gusti molto differenti dai nostri in termini di riverbero: se un francese poggiava le dita sulla tastiera e sentiva il suono “affogato” in un ambiente con tre secondi di decadimento comprava altro.

 

raffaele mirabella

GEM Promega 3

 

La leadership e il declino

 

RG: nel frattempo, siete diventati leader del settore…

 

RM: Nei primi anni 2000, la Generalmusic raggiunse il 60 per cento nelle vendite di pianoforti digitali casalinghi in Italia, e certe percentuali generano entusiasmo in tutti i settori dell’azienda. Rispetto a una multinazionale del settore noi eravamo molto più dinamici, e spesso le nostre innovazioni hanno fatto da apripista.

 

RG: però, dopo anni di fasti, il lento declino…

 

RM: buona parte della storia l’ha già raccontata Gianni Giudici nella sua intervista: a fronte di progetti e compensi più stimolanti, una serie di tecnici confluirono in aziende concorrenti appena nate in zona. Molti di noi sono rimasti fino alla fine perché – intorno all’anno 2006 – ci fu proposto dal management di rinnovare tutta la serie di workstation arranger.

 

raffaele mirabella

La sede Generalmusic/LEM a San Giovanni in Marignano in stato di abbandono

 

Il canto del cigno: Generalmusic K2

 

RG: un progetto molto ambizioso…

 

RM: questa tastiera aveva già tool all’avanguardia: un display Touch Screen, timbriche efficaci e forte interazione con il mondo esterno per l’uso di file MIDI, audio e video. Sulla K2 studiammo una motherboard con ben quattro processori proprietari Drake, in grado per la prima volta di interagire tra loro, e con un sistema operativo basato su Windows CE attraverso una porta seriale. Questa soluzione hardware/software consentiva l’impiego di qualsiasi sezione della K2 in maniera indipendente. Di questo strumento realizzammo cinque prototipi funzionanti.

 

RG: ricordo quello celato nello stand al Musikmesse del 2008…

 

RM: in quel periodo cominciammo a realizzare gli style inserendo funzioni più approfondite nell’arranger. Lo chassis ricordo che fu ripreso da quanto studiato per la WX, ma il pannello comandi era inedito. Purtroppo, sul finire del 2008 la Generalmusic chiuse e la K2 non entrò mai in produzione: sarebbero bastati sei mesi per vedere questo strumento nei negozi.

 

raffaele mirabella

Francoforte 2008: all'interno dello stand GEM, Raffaele mi mostra il prototipo della K2

 

L’esperienza Eko

 

RG: chiuso il capitolo Generalmusic, quali prospettive?

 

RM: fortunatamente, dopo pochi mesi dalla chiusura ricevetti due offerte di lavoro, tra cui quella di seguire i prodotti distribuiti in Italia da Eko Music Group che accettai. Attualmente sono Product Specialist delle tastiere Korg, Nord, Studiologic e Icon, quest’ultima specializzata sulla realizzazione di controller MIDI e interfacce audio dal buon rapporto qualità/prezzo.

 

RG: l’ambiente in Eko?

 

RM: parliamo di un grosso distributore che oggi è tornato a produrre strumenti: si pensi ad acquisizioni come Montarbo o Quiklok, fino al ritorno recentemente di Eko Guitars. Oggi i social la fanno da padrone, e oltre al supporto tecnico alla clientela, in Eko realizzo contenuti da divulgare sul web. Ci tengo a sottolineare che in Eko ho trovato non solo vecchi amici, ma giovani motivati con cui lavoro molto bene

 

 

Il mercato odierno

 

RG: come vedi la situazione?

 

RM: dopo un periodo di forte innovazione la situazione è di stallo. A mio modesto parere, il punto di svolta è stata l’introduzione degli strumenti virtuali, perché molti utenti hanno venduto strumenti storici e ben sonanti, convinti che un sistema aperto potesse risolvere qualsiasi problema. Le nuove generazioni sono praticamente cresciute con i virtual instrument, quindi la mentalità musicale e creativa si è sviluppata con un computer. L’approccio fisico con una tastiera l’hanno avuto solo recentemente, con la comparsa dei piccoli sintetizzatori economici.

 

RG: e che ne pensi della proliferazione sul mercato delle repliche di synth vintage a basso costo?

 

RM: il problema è concettuale. Strumenti come il Minimoog o l’Arp Odissey nacquero per consentire al musicista di sviluppare un nuovo linguaggio musicale, per inventare nuova musica. Ascoltando i brani musicali che mi propongono le nuove generazioni, impiegando i cloni degli originali, mi rendo conto che manca la base di quello che fu lo stimolo a creare musica sperimentale per la nostra generazione. Se a questo aggiungi la nevrosi dell’utente moderno che – afflitto molto spesso dalla sindrome da acquisto compulsivo – compra e rivende strumenti perennemente afflitto da insoddisfazione riguardo alle prestazioni sonore, la confusione aumenta. Io sono un accumulatore seriale di strumenti, non lo nego, ma tengo quelli di cui ho bene in mente le prestazioni di alcuni preset, perché in grado di stimolarmi la creatività. Io spero che le nuove generazioni, di fronte a tanta bulimia nell’offerta, possano ritrovare l’originalità nelle proprie composizioni. D’altronde, Laurens Hammond ha costruito il suo organo per fare il succedaneo di quello da chiesa, ma Keith Emerson e Jon Lord ne facevano un uso ben diverso!

 

RG: grazie Raf!

 

 

 

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