Sembra una domanda scontata, ma sul lungo termine, parliamo almeno di venti anni, la risposta non è così immediata come sembra.
Il mondo dei synth sembra ormai dividersi in alcune categorie che seguono, idealmente, una linea temporale di costruzione:
- sintetizzatori modulari, monofonici e polifonici analogici con o senza controllo digitale, fino a circa il 1985
- sintetizzatori puramente digitali che si sono evoluti anche in virtual analog digitali, dal 1982 a oggi
- nuovi sintetizzatori analogici costruiti con componenti e tecnologia recente, da circa ormai venti anni
- sintetizzatori modulari analogici costruiti come in passato o con tecnologie moderne, ormai da 30 anni
- cloni di sintetizzatori analogici costruiti con i componenti moderni ma ancora derivati dall’originale.
La tecnologia e la costruzione
Il periodo di costruzione riflette il grado di tecnologia raggiunto: per i primi sintetizzatori analogici si parla di componenti discreti, transistor e dei primi integrati molto semplici. Con l’avvento dei microcontroller, della RAM su chip e delle EPROM, assieme ad integrati per funzioni di VCA, filtro, VCO, inviluppi e circuiti vari, il monofonico si trasforma in polifonico analogico con controllo digitale, come i leggendari Oberheim, Moog, Sequential Circuits e Roland per citare i più ricercati. Nel frattempo gli integrati su chip assumono un ruolo fondamentale nel traghettare la tecnologia al passo successivo.
Non ci sarebbe stato un Yamaha DX7 senza la progettazione di un integrato ASIC dedicato alla sintesi FM, che finirà poi su migliaia di computer, cellulari e non solo. Yamaha ha sempre progettato in casa propria questi integrati custom e così pure accade anche per Roland. Entrambe le aziende giapponesi basano tuttora la loro produzioni su chip custom, sia per ragioni di potenza di calcolo ma anche di qualità e costi.
All’inizio degli anni 2000 i microcontroller e il cosiddetto computer on chip, permettono di esplorare nuove possibilità e arrivano una serie di sintetizzatori che hanno una base più informatica con software proprietario. E’ il caso del bellissimo Korg Oasys, un vero e proprio computer con una CPU Pentium 4 a 2,8 GHz e un GB RAM, che permette di caricare un adattamento del sistema operativo Linux con software proprietario di Korg. Ricordiamo ancora, in quel periodo, il momento in cui suonavamo un Oasys assieme a un Clavia Nord Stage. Dopo una mezz’ora di pianoforte su Oasys, quello di Nord Stage risultava piccolo, poco curato e quasi giocattoloso. La potenza aveva e ha un gran significato per i synth digitali più recenti. Arrivando ai giorni nostri, si preferisce impiegare un DSP FPGA programmabili a piacere, come nel caso gli eccellenti Waldorf Iridium (leggi qui il test) e Quantum.
Il revival dell’analogico è proseguito dagli anni ‘90 a oggi, quasi sempre in forma di ibrido con VCO e VCF analogici controllati poi digitalmente. Citiamo per esempio i modelli di Arturia e della più recente produzione di Sequential Circuits, alias Dave Smith, oltre a una serie di produttori boutique che hanno in catalogo diversi modelli.
Nel frattempo, già negli anni ‘90 cominciava a coagularsi il settore dei modulari, dapprima costruiti con classici componenti analogici, come nel caso degli americani MOTM e Synthesizer.com, entrambi in formato 5U Moog. Parallelamente in Europa proseguiva la produzione di moduli di Doepfer, da cui derivò il più popolare formato Eurorack. Ci volle poco, da allora, vedere nascere moduli prima ibridi e poi del tutto digitali, riportando nel rack modulare anche vecchie conoscenze con i filtri digitali Z-Plane del primo Emu Morpheus. Oggi nel mondo dei modulari si trova di tutto, compresi circuiti che clonano componenti originali, come per esempio gli inviluppi di Roland System 100m.
L’ultima tendenza, di grandissimo successo, è la clonazione dei classici di sempre. Si va dal Korg MS20, Korg ARP Odissey e 2600, a tutti i cloni di Berhinger come l’eccellente Pro-1 (leggi qua il test), il Model D, il Poly D (leggi il test), la Bassline TD-3 (leggi il test), l’Odyssey, il MonoPoly, l’MS-1, il Wasp, e chissà che altro ci aspetterà nel futuro.
Accanto a questa produzione, che in alcuni casi è davvero eccellente nel carattere timbrico, ci sono anche progetti unici come il Neutron o il Crave che partono dai classici cloni di filtri o VCO clonati dai classici CEM, che hanno rappresentato la svolta nella produzione di sintetizzatori polifonici analogici degli anni ‘80.
Avendo un quadro completo della storia passata e presente, ci siamo chiesti che cosa tra vent’anni si potrà ancora utilizzare e cosa invece è destinato a un lugubre oblio per problemi di manutenzione.
L’obsolescenza non programmata
Siamo tutti consci che la maniglia della lavatrice prima o poi si romperà, stranamente con una tempistica perfetta che ci costringerà a cambiare tutta la lavatrice. E’ possibile che esista il concetto di obsolescenza programmata anche per i sintetizzatori? Non c’è una risposta univoca e tutto dipende dalla disponibilità dei componenti per la riparazione e la manutenzione.
Synth vintage
Partiamo dai classici monofonici e polifonici analogici. Parliamo di Moog Minimoog, ARP Odissey, Oberheim SEM, Oberheim OB-X, OB-Xa, Sequential Circuits Prophet-5, Prophet One, Korg MS-20 per citare i più conosciuti. La loro costruzione prevede componenti discreti con resistenze, condensatori, transistor, diodi e altri componenti dalle misure standard, su schede o PCB di grandi dimensioni. Quando ci si trova a riparare un Minimoog, per esempio, ci sono pochi problemi per dissaldare un componente e sostituirlo con uno più recente, anche perché più è vecchio il progetto del sintetizzatore, più è facile che abbia componenti standard ancora oggi prodotti. Sia i synth polifonici che monofonici erano costruiti con questi componenti, quindi con un livello di manutenzione non complicato.
Negli anni ‘80, a partire dal Prophet-5, la sezione analogica cadde sotto il controller di una CPU o di un microcontroller, che gestiva per esempio l’accordatura, eventuali modulazioni e le memorie. Tuttavia il cuore di questi bestioni polifonici rimane analogico. Nel tempo alcuni integrati usati per la memoria o per particolari aspetti della conversione dei segnali da digitale ad analogico, e viceversa, diventano più rari, ma ecco che ci corre incontro la modernità con una serie di piccoli progetti e schede che possono sostituire in toto alcune parti digitali del sintetizzatore e renderlo di nuovo longevo e, talvolta come il caso di Rhodes Chroma, anche più potente. La ricerca dei chip CEM sembra ormai a un punto di svolta, perché più aziende producono cloni di questi chip.
Avrete notato che non è citata Roland, perché le case giapponesi, compresa Yamaha, avevano un approccio differente: disegnavano per conto loro una serie di integrati con alcune funzioni particolari, come gli oscillatori, i filtri o gli inviluppi. Qui si entra in una zona grigia della manutenzione, soprattutto per i synth analogici Yamaha, perché non è detto si riesca a trovare un componente originale da sostituire con uno difettoso.
Leggenda vuole, purtroppo, che alcuni di questi produttori abbiano mandato al macero gli inventari di questi integrati, perché costava troppo mantenerli in magazzino. I tempi moderni sono però forieri di novità. Per esempio Analogue Renaissance ha in produzione una serie di cloni di chip per Roland Juno 106 e altri synth, tra cui l’AR80017A per il chip del filtro VCF/VCA.
L’azienda tedesca Synthronics produce una serie di PCB pronte all’uso per sostituire gli originali di Korg Polysix, Korg Poly 61, nuove schede di alimentazione per Oberheim Matrix 1000, Roland Jupiter 4/8, Roland Juno 106/60, SCI Prophet VS. Ci sono inoltre alcuni progetti pioneristici per riprodurre le singole schede di Roland Jupiter-8 e su Ebay si trova la scheda di interfaccia con la CPU a 14 bit.
Synthchaser, negli Stati Uniti, dispone di diversi kit e componenti per i synth Oberheim e altri brand, con alcune idee interessanti per togliere di mezzo, per esempio, la batteria su OB-XA. Per i felici proprietari di Oberheim OBX, Abstrakt Instruments ha ricostruito le schede voci da sostituire fino ad arrivare al synth in rack VS-1. Il premio per il miglior supporto possibile va comunque a Rhodes Chroma, che può vantare una nuova alimentazione, una nuova CPU, un nuova maschera per il pannello di controllo e anche la possibilità di installare l’aftertouch. Tutto merito di veri cultori di questi sintetizzatori, come per esempio Luca Sasdelli e Sandro Sfregola che hanno contribuito ad allungare la vita, e la potenza, del Rhodes Chroma. Un dato certo per tutti questi progetti custom è che la loro longevità non è certa, per cui spesso conviene comprare una scheda o un clone dei chip quando sono disponibili.
La conclusione, quindi, è che molto vintage è e rimarrà ancora riparabile, ma non è sempre detto che esista il componente, che forse qualcuno ricreerà o sostituirà con una nuova scheda se il sintetizzatore ha molti utenti.
I digitali
La categoria dei synth digitali si apre per diritto di popolarità con il primo Yamaha DX7, che in fatto di integrati proprietari è un gigante. L’FM non si sarebbe potuta realizzare senza la creazione di un chip custom per generare il suono in digitale dell’FM. Seguirono a ruota, in fatto di chip proprietari, Roland con D-50 e le relative evoluzioni.
Di tutti i produttori di synth, Yamaha e Roland hanno di fatto costruito un impero sul disegno custom di alcuni componenti digitali fondamentali. Ciò costituisce un potenziale problema sul lunghissimo termine, anche se c’è da dire che i synth digitali difficilmente hanno problemi per questi componenti. E’ più facile che il problema nasca dall’alimentatore, dai connettori o dai pulsanti, piuttosto che da questi chip proprietari che sono costruiti con tutti i crismi per resistere nel tempo.
Nessuno può dire cosa accadrà in futuro, soprattutto se ci saranno intrepidi programmatori disponibili a creare sezioni custom per sostituire alcune parti che potrebbero mancare. Ci sono però synth digitali differenti, basati su microcontroller comuni dove a fare la differenza è il software e non l’hardware. Nelle incarnazioni più recenti, per esempio nel caso di Waldorf Iridium, della precedente Korg Oasys basata di fatto su un scheda per PC o del più recente Korg Wavestate che sembra essere costruito attorno a un sistema su Arduino, il problema nel futuro sembra non esserci, perché questi sono tutti componenti standard che saranno a disposizione per anni a venire. In questi casi è il software che fa la differenza. A guardare nel nostro setup, tutti i digitali funzionano ancora benissimo, compreso un mastodontico Yamaha TX816 pilotato da un DX5 e una serie di sintetizzatori Roland e Korg che non hanno problemi.
L’analogico moderno
I sintetizzatori analogici moderni possono riservare qualche sorpresa: alcuni di essi sono costruiti seguendo pedissequamente il progetto originale con componenti ancora discreti, quindi facilmente sostituibili, ma è sempre più facile incappare in ottimi sintetizzatori analogici costruiti con tecnica SMD, cioè con componenti miniaturizzati che per essere dissaldati e risaldati necessitano di molta perizia e apparecchiature dedicate. Fino a che i componenti SMD sono saldati su schede PCB classiche usando i fori, è sempre possibile intervenire. Va peggio nel caso in cui questi componenti miniaturizzati siano direttamente saldati sulla superficie dei circuiti, la cosiddetta tecnologia SMT. Intervenire per cambiare anche un solo condensatore può essere un’impresa che richiede quasi un microscopio.
Soprattutto Behringer sta producendo sintetizzatori analogici con componenti SMD ma non in tecnologia SMT, per fortuna. Teoricamente sono sintetizzatori che si potranno riparare, ma il prezzo in termini di tempo e capacità per la sostituzione di componenti miniaturizzati è alto. Ne varrà la pena visto il prezzo d’acquisto?
Le medesime considerazioni ricadono anche per i modulari: affidarsi al formato 5U (MOTM o Synthesizer.com per esempio), corrisponde nel 99% dei casi a schede con componenti standard, facilmente sostituibili. Passando al formato Eurorack, dove lo spazio si riduce, è possibile incappare in moduli costruiti con componenti miniaturizzati SMD, con le conseguenze del caso.
L’ultima frontiera sono i cloni dei sintetizzatori classici, come l’OB-X, che sono stati ricostruiti con gli stessi componenti, più moderni ma ancora disponibili. Non dobbiamo infatti dimenticare che negli ultimi anni sono tornati in produzione i classici chip SSM e Curtis, anche da aziende differenti. Il futuro che si prospettava nero per la mancanza di questi integrati, oggi tende al sereno.
Conclusioni
La nostra domanda iniziale può avere una risposta: la vita di un sintetizzatore dipende dall’utilizzo di componenti reperibili sul mercato, dalla qualità di costruzione degli integrati custom per i synth digitali e dalla tecnologia di saldatura di questi componenti. Il vintage più classico è in grado di resistere ancora per molto tempo, nella maggioranza dei casi, così pure i sintetizzatori digitali sono ancora una buona garanzia di lunga vita perché prodotti con una mentalità industriale e non consumer.
Oggi ci sono alcuni synth analogici a basso prezzo che strizzano l’occhio al consumer, più che al professionale. Vedremo cosa accadrà nel futuro. È troppo presto per sapere se la qualità di costruzione è effettivamente industriale e professionale più che consumer. Di certo sappiamo che un vecchio Yamaha DX7, un Roland D-50, un Korg M1 o un Kurzweil K2000, tutti synth digitali, ancora oggi si accendono e si suonano senza problemi, a testimoniare che i produttori storici continuano a vedere questo mercato dal punto di vista professionale e non come prodotti di consumo, quando si parla di sintetizzatori ad alto coso.
La nostra personale impressione è che i sintetizzatori siano ancora dei prodotti nati per durare nel tempo, senza una obsolescenza programmata, se non per il timbro che evolve costantemente, ma questa è un'altra storia da raccontare...